Quando Filippo mi scrisse dicendomi “voglio fare un viaggio con la due cavalli insieme a te, destinazione Provenza” sul momento la presi come una delle sue sparate. Io e Filippo ci conosciamo da qualche anno, per alcune passioni in comune, la comunicazione digitale, il turismo e soprattutto le cose fuori dall’ordinario. Insieme, in un ottobre caldo e soleggiato, organizzammo nel Mugello un evento innovativo dedicato al turismo delle piccole destinazioni, territori e culture ai margini dei grandi racconti del turismo di massa, ma questa che ti racconto è un’altra storia. Una storia che sa anche di turismo, ma soprattutto di viaggio.
Verso Sud, un viaggio con la due cavalli
In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare
Un viaggio è difficile da raccontare, perché la mente vorrebbe delinearlo, spiegarlo e dispiegarlo come una serie di dati, di eventi, di fatti, ma per il cuore, soprattutto di chi legge, questi sono accessori. Siamo nell’epoca dei dati, dei grandi data (i famosi Big Data), ma anche di quelli piccoli, continui, notifiche, cuoricini, tag e rumori. Ogni tanto invece, bisogna uscire da questo recinto che ci fa sentire sicuri, ma che in fondo ci rende sempre più legati, in una rete che assomiglia più a quella del ragno, che a quella della vita, dove ogni cosa è connessa alle altre, in un’interdipendenza che spesso sa di magia.
Ecco, abbiamo bisogno di magia, interconnessioni, sincronicità, incontri significativi, meraviglia gettata secondo un apparente caso, semi di sana follia che fanno germogliare piante fantastiche.
Io e Filippo abbiamo intrapreso un lungo viaggio, non tanto e solo fisico, ma soprattutto interiore, fatto di deviazioni, piccoli e grandi guasti meccanici riparati con simpatia e facilità, autostrade infinite, strade costiere, vacanze di massa, ma anche borghi che vivono oltre il turismo.
Viaggiare nell’anno di grazia 2020 non è scontato, farlo con una macchina d’epoca, in quella terra densa di bellezza e contrasti che è il Sud Italia ancora meno.
Te lo racconterò come se raccontassi a voce, dove i ricordi si mescolano alle sensazioni, alle immagini, perché in fondo, quello che importa non è il dove e il quando, ma forse un come, poter viaggiare con la due cavalli, o con la fantasia, anche quando sembra impossibile.
Dalla Grecia alla Toscana. In viaggio con la due cavalli nel Mediterraneo
Ero in un’isola del cuore, l’antica Zante, quando Filippo mi scrisse di nuovo. Stavo ascoltando un pezzo del sud, una di quelle odi al mio adorato mare, il Mediterraneo, distesa d’acqua salata tra le terre, che unisce, nonostante le barriere fisiche e mentali. La Provenza mi scorreva davanti agli occhi della mente come il ricordo di un viaggio in un altro anno straordinario, almeno per me. E no, non mi convinceva, avevo bisogno di un altro Sud, più forte, più denso. Così, decidemmo di “rotolare verso Sud”, di lasciare che la due cavalli ci guidasse verso Matera o la Calabria. Non c’era un piano, non c’è mai stato.
Nell’epoca dei programmi, dei calendari che ci portiamo in tasca e che ci avvisano con le notifiche, noi decidemmo di non decidere. C’era solo un punto di incontro, la stazione di Prato e poi giù, finché il nostro destriero avesse retto.
Un’alba di agosto, in una Pordenone deserta, pochi giorni dopo essere tornato dalla Grecia, mi incamminai zaino in spalla verso la stazione. Da lì lasciai che i treni regionali scorressero nella pianura padana, fino agli Appennini. Lasciai che il caldo del primissimo pomeriggio mi accogliesse in Toscana, insieme a Cialeste, una Citroën due cavalli del 1974, azzurra come i cieli delle fiabe.
Il rumore fu subito assordante, insieme all’inebriante odore dell’olio del motore, mentre la capote aperta riempiva del sole d’estate il nostro viaggio lungo l’Aurelia, la strada costiera che sembra tuffarsi nel Tirreno, tra cipressi, lidi affollatissimi e scorci di mediterranea bellezza.
Era difficile parlare e capirsi, superati i 90 km all’ora, e non avevamo voglia di decidere tappe e soste, se non quelle necessarie per rifocillare i nostri stomaci e Cialeste. Pareva già che l’indolenza del sud, l’ozio cantato dagli antichi, il dolce far niente, avesse preso il sopravvento. Allora, andava bene qualche pausa, vicino a Grosseto e poi oltre Roma, per trovare una stanza a poco prezzo, nei pressi di Cassino, perché la costa era presa d’assalto da un’umanità bloccata dalla pandemia dentro i confini nazionali. Ma il nostro vero obiettivo, più un desiderio che un vero e proprio punto in una mappa, erano il Cilento e la Calabria.
In Cilento e in Calabria: guasti ed accoglienza mediterranea
La periferia di Cassino non aveva nulla da raccontarci, l’albergo recuperato all’ultimo aveva quattro stelle ormai cadute da tempo e qualcosa ci attirava verso sud, ricordi di infanzia o quel desiderio di esotico che afferra tutti coloro che conoscono le nebbie, fisiche e mentali, del nord.
L’autostrada scorreva più veloce di noi, mentre camion e macchine moderne correvano verso le vacanze o altri impegni. Noi non ne avevamo, ci limitavamo a mandare messaggi, o a cogliere quelli che arrivavano dalla terra oltre l’asfalto, piccoli borghi, campagne, fuochi di sterpaglie e un Vesuvio avvolto dalle nuvole. Avevamo superato un confine immaginario e reale. Eravamo arrivati a Sud, il luogo dove tutto può succedere.
L’autostrada diventava di nuovo costiera, super strada che si incuneava in paesini con panni stesi e anziani che non hanno più fretta. Sembra la Grecia disse Filippo e si, eravamo arrivati in quel continente non riconosciuto dalle mappe moderne, il Mediterraneo. Chilometri e chilometri di costa dove tutto è più forte, il sangue dei suoi abitanti che sembra scorrere lento (la passione richiede tanta energia), i colori della terra brulla e degli ulivi, i sapori che ti afferrano la gola, per farti cedere ad ogni buon vizio, che il nord esorcizza con diete e regimi salutistici, forse avanguardia di altri regimi, della mente.
Battipaglia andava bene una sosta. Una gastronomia diventava pausa tra il traffico dei villeggianti diretti in Cilento. Alle 11, nel caldo dell’estate, io e Filippo scendemmo dalla due cavalli, attirati da un altro animale, la famosa bufala campana. Quando il prezioso oro bianco uscì dalla sua acqua e arrivò nel nostro piatto, accompagnato da un tarallo napoletano e una Nastro Azzurro, mi rilassai davvero. Eravamo veramente nel Sud e nulla ci poteva fermare.
Qualcosa ci fermò in verità, subito dopo. Eravamo arrivati all’inizio della nostra destinazione, il Cilento, ad Agropoli, quando Filippo svoltò improvviso verso un parcheggio di uno stabilimento balneare. Qualcosa non andava, la frizione non rispondeva più.
Dopo una veloce analisi, Filippo scoprì che il cavo della frizione si era rotto. Io ero stranamente calmo, quella quiete che deriva da una fiducia incrollabile per cui può accadere di tutto, ma soprattutto il suo contrario, riparazioni e cure. Non avevamo un cavo di scorta, cosa che ho scoperto essere essenziale in un viaggio lungo con la due cavalli. Meglio portarsi dietro di tutto, perché i ricambi esistono e anche se non sai metterci mano, un buon meccanico troverà il modo di farlo.
Stavo capendo una cosa fondamentale: l’essere umano ha prodotto oggetti che possono essere infiniti, sempre riparabili, capaci di superare le mode, le plastiche, le elettroniche a basso prezzo a cui ci siamo abituati, altro tipo di oggetti, destinati invece a morire entro breve e costare moltissimo, a noi e alla terra che ci ospita. Un viaggio con la due cavalli diventava anche una lezione di ecologia.
La lezione da teoria divenne pratica quando Filippo, smanettando tra chat e gruppi Facebook, dopo aver attivato la rete italiana degli amanti della due cavalli, aveva ritrovato un meccanico di Paestum, città a pochi chilometri dalla nostra sosta forzata, conosciuto durante qualche autoraduno, che sarebbe intervenuto senza problemi. Bastava attendere la sera. E attendere di fronte al mare, tra un fritto di pesce e un bagno nelle acque blu del Tirreno del sud, è un privilegio.
Intanto si poneva il problema dell’alloggio e i confini semi chiusi per via della pandemia non aiutavano. L’Italia era stata in Italia, le mete alternative, Croazia, Grecia e Spagna, i luoghi mediterranei a basso costo ed alto impatto di bellezza venivano scoraggiate, quindi tutto un popolo si riversava ovunque, mari, montagne, fiumi. Tutto era pieno.
Nell’intero Cilento non sembrava esserci lo straccio di un letto, fino a settembre, nemmeno a venti chilometri dalla costa. Spostandoci sempre più verso sud con la ricerca, rimaneva un’unica alternativa, un agriturismo consigliatomi da un’amica calabrese, un’oasi che per qualche disguido aveva capito che saremmo arrivati a cavallo. La velocità era quella ma no, noi viaggiavamo su una due cavalli, riparata in appena aventi minuti da Dino, il meccanico di Paestum, in tempi e modi che le nostre macchine piene di app e sensori non possono capire.
Il tramonto sul mare, gli ultimi bagnanti, un pezzo di pizza e noi, determinati ad arrivare in Calabria, tre ore di viaggio oltre la costa, in strade buie degli Appennini campani, lucani e in fine calabresi. Tre regioni in tre ore, fino ad approdare a Scalea, un lungo mare affollato e luminoso. Poi di nuovo dentro, in salita, pochi chilometri e una strada sterrata nel buio, tra ulivi, agrumeti ed eucalipti. Eravamo arrivati nell’oasi, dopo lungo e faticoso viaggio. L’agriturismo I Cedri, nel Parco del Pollino, sarebbe stata la nostra casa per tre notti e due giorni, prima di ripartire verso nord.
Cedri, peperoncini, madonne e droni, sosta nella Calabria del nord
Sono di parte – quale racconto è obiettivo? – ma luoghi come I Cedri per me sono una meta in sé, spazi di bellezza naturale ma soprattutto umana, dove l’agricoltura è passione, per recuperare le vecchie varietà, quelle che sono cresciute insieme a quella particolare terra e a quei particolari esseri umani, ma anche per sperimentare e creare qualcosa di nuovo, adatto ai tempi. Un’oasi appunto, per i viandanti del terzo millennio, che non hanno bisogno della vecchia vacanza, sdraiati a non far nulla e riempirsi di cibo, ma rallentare, essere in contemplazione, e gustare, sapori, profumi, racconti, ospitalità.
Quei due giorni ai Cedri li trascorsi come se fossi ospite di amici, secondo quell’arte innata dell’accoglienza che esiste a sud delle nostre città-fabbriche, per cui l’ospite è ancora sacro. Sentirsi a proprio agio, sentirsi accolto, vale molto di più che l’austera formalità di tante strutture ricettive moderne, vale di più di mille servizi che rischiano di creare barriere.
Lì subito parlai e ascoltai, mentre scorrevano bicchieri di vino calabro, cibo cucinato con grazia, progetti di turismo diverso, discussioni filosofiche a tarda notte sotto un pergolato. Attorno, le montagne del Pollino e poco lontano un mare blu come il cielo.
Ecco, il mare d’agosto è sempre impegnativo e come dicevo per il Cilento, nel 2020 ancora di più. Le spiagge erano piene, di macchine, di umani e selfie, disturbi della naturale poesia dell’acqua salata, delle rocce, della sabbia. Io avevo bisogno del mare quieto, ho bisogno di ascoltare le onde, di lasciare che i pensieri vengano soffiati dalla brezza. Questo era difficile, nonostante la bellezza di una costa da conservare nella lista dei luoghi da vedere fuori stagione.
Io e Filippo allora, dopo aver girovagato in cerca di un accesso al mare, decidemmo di ritirarci nell’interno, a pochi chilometri dall’agriturismo. In sella alla due cavalli, siamo scivolati su stradine deserte, verso il piccolo paese di Orsomarso.
L’interno è il regno della pace e dell’immaginazione
Se le spiagge sono puro assembramento, se il parcheggio è impossibile, se tutti vogliono il mare,
tu cerca le vie che portano nell’entroterra, verso paesi abbracciati dai monti, da una Madonna e dal silenzio che rigenera.
Sembrava un altro mondo Orsomarso, silenzioso nella lunga pausa mediterranea del pomeriggio, con pochi bar casalinghi e vicoli, regni di gatti e peperoncini appesi ad essiccare. Lì sentivo di essere in Calabria.
E qui accadeva anche un altro capitolo di questo viaggio con la due cavalli nell’Italia meridionale, un intoppo che alla fine si rivelò l’ennesimo esempio della disponibilità della gente del sud.
Filippo decise di far volare il suo drone per fare qualche ripresa di Orsomarso dall’alto. Il tempo di sedere su una panchina ad osservare una palma da dattero che cresceva indifferente sulla riva scoscesa del fiume che attraversa il borgo, ed ecco arrivare Filippo con la notizia che il drone si era incagliato da qualche parte sui monti del paese.
L’oggetto, non più volante, mandava un segnale che ogni tanto si avvertiva nelle vicinanze della grande statua dedicata alla Madonna di Lourdes che benedice l’abitato. Inutili le ricognizioni nei sentieri attorno, inutile perfino il mio tentativo avventuroso di inerpicarmi sui ripidi e boscosi pendii, dopo esser tornati ai Cedri per recuperare pantaloni lunghi e farmi dare un paio di scarpe da trekking da uno dei gestori.
In tutto quel movimento, però, dovendo passare per il giardino di una famiglia, figlio, madre e nonna si appassionarono al drone perduto e dopo il mio insuccesso ci fu uno scambio di numeri di telefono, in caso di un eventuale ritrovamento. Evento che io e Filippo davamo per impossibile.
La svolta arrivò la sera, mentre seduti attorno ad un tavolo dell’agriturismo, in attesa curiosa della cena preparata dallo chef Fabio, Filippo ricevette una telefonata. Era il padre del ragazzo che mi aveva aiutato, un suo amico aveva un drone professionale, poteva fare delle riprese e localizzare quello perduto. Inoltre, suo figlio studiava a Firenze e avrebbe potuto portare il drone a Filippo. La telefonata portava un po’ di serenità in una giornata un po’ frastornante, tra spiagge affollate e perdita del drone, evocando quel senso di ospitalità mediterraneo che sfocia spesso in gesti di aiuto e solidarietà totalmente disinteressati.
Cullati da una tale disponibilità ci potemmo dedicare ad un’ottima cena e poi a lunghe chiacchierate fino a tarda notte. Non troppo tardi perché restava l’ultimo giorno in Calabria, prima di una lunga tirata, un unico viaggio con la due cavalli, fino al Mugello, attraverso mezza Italia.
E già le parole sono diventate molte, seppur sostenute da foto, ma d’altra parte un viaggio richiede pazienza. Mi sbrigherò allora, perché quello che volevo dire l’ho detto e non rimane che un sentiero costiero percorso in infradito, in cerca della mitica baia nascosta e bellissima, ahimè non trovata. Non resta che una spiaggia di sassi neri vicino a Maratea, nome che a me evoca il reame di qualche storia di fantasia. Non resta che l’ultima cena ai Cedri, gli ultimi piatti con gli echi di Sicilia e un bicchiere di vino bianco, mentre soffiava il vento della sera, a rinfrescare giornate calde, come è giusto sia a Sud.
Non resta che il mattino presto, svegli per affrontare il ritorno, l’autostrada fino a Salerno e poi su, su, lungo l’Italia ancora in ferie, ma prima che ritorni a casa, perché in coda con la due cavalli sotto il sole, si potrebbe avere visioni di tutti i santi protettori delle terre che passiamo, da San Gennaro in su.
Ecco alla fine Firenze e la sua cupola, la città deserta per le ferie d’agosto e il poco turismo a causa del Covid. Ecco i colli di ulivi e poi stradine che si snodano negli Appennini, fino ad arrivare nel verde Mugello e lasciare che Cialeste, la due cavalli, possa riprendere fiato insieme a noi, sfiniti dopo 700 chilometri in un giorno. Non resta che attendere il tramonto e la sera scura, per dormire stanchi ma soddisfatti, pieni di un viaggio d’altri tempi, di sorprese e possibilità, di storie e di fantasia.
Vuoi maggiori dettagli sul viaggio con la due cavalli?
Prima di partire Filippo ha scovato una simpatica applicazione dove ha tenuto un diario digitale del nostro viaggio con la 2 cavalli. Ma ricordati, la mappa non è il territorio e tantomeno le sue storie!
E il drone di Orsomarso?
La famiglia che mi ha dato una mano a cercarlo l’ha recuperato e il figlio l’ha portato a Firenze consegnadolo direttamente a Filippo. Una storia a lieto fine, condita di tutta l’ospitalità del Sud.
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