Devo ringraziare il mio lavoro “strano” che mi porta laddove non penserei mai di andare, dove nemmeno la curiosità conosce i nomi e i luoghi. Non solo ho la fortuna essenziale, perché mi ricollega all’essenza, di scoprire cosa si nasconde dietro casa mia, in quella terra di confine chiamata Friuli-Venezia Giulia, che pochi, ancora meno i propri abitanti, conoscono. A volte, giungono chiamate improvvise che sorprendono la routine, le ore e i giorni passati davanti ad un piccolo o grande schermo. Sono appelli che la pigrizia vorrebbe rifiutare, perché vuol dire prendere un treno quando il mondo dorme ancora e comunque lasciare la presunta sicurezza di ogni giorno. La curiosità, per fortuna, è quel bimbo mai addomesticato, un invito al nomadismo, che vince su ogni cosa. Ecco, perché ho deciso di andare in Irpinia.
Del sud una persona del nord pensa di sapere già tutto, la sua valigia parte sempre colma di pregiudizi, pesante di tutto il cibo che si aspetta le venga offerto, dei ritardi e dei disguidi che teme di incontrare, della grande bellezza mediterranea a base di ulivi e palme, dell’abbandono colpevole in cui langue.
Il viaggio, quello vero, non immaginato prima di partire, è lì puntualmente per sfatare, scombinare e scompaginare le pagine di un diario che invece si riscrive ogni volta. Libro mutevole il Sud, come sono le infinte pieghe dei suoi territori. Altro non è che un piccolo grande esotismo, che in fondo al nostro cuore, a volte freddo, cerchiamo di raggiungere in ogni modo.
L’Irpinia allora non è il terremoto del 1980, la sua ricostruzione lunga e sofferta, non è nemmeno “vicina a Napoli”, perché a racchiudere tutto dentro delle scatole, per quanto grandi come il capoluogo partenopeo, si perde il piacere di sentire e vivere davvero, non è nemmeno piccola e senza attrattive. L’Irpinia è molto di più, terra di mezzo tra l’Adriatico, lo Ionio e il Tirreno, crocevia di popolazioni e di storie, mediterranea nei suoi pregiati ulivi e allo stesso tempo montana, nelle sue rocce che sollevano borghi e castelli.
La mia Irpinia è certo solo un assaggio, una visita di pochi giorni, alla fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno, quando la natura inizia a tacere e la bellezza dei paesaggi a nascondersi. I ricordi sono un po’ freddi, di passi veloci in un piccolo borgo la sera, mentre il vento ti invita a rifugiarti in un vecchio bar o dentro il portone di una casa, per scendere degli scalini ed incontrare delle cantine, dove si conservano tesori, come il caciocavallo podolico, fatto con latte non pastorizzato di mucche autoctone che pascolano libere.
Questa degustazione non è che l’inizio, perché anche questa volta a sud, il pregiudizio dell’ospitalità e dell’abbondanza, non viene per fortuna disatteso.
Ogni passo è stato accompagnato infatti da cibi e bevande che difficilmente superano i confini dei monti che sembrano proteggere questa terra. Sono nomi semplici e reali: pecorino Carmasciano, fatto con il latte crudo; olio extra vergine Ravece, che goccia a goccia continua a far risplendere i miei piatti a centinaia di km di distanza.
Parlo di alimenti essenziali, base dell’alimentazione, però lontanissimi da quella insapore moderna. Non mancano poi le popolari pizze o piatti più ricercati come un risotto all’aglio ursino, varietà selvatica di quell’aglio che troppo spesso snobbiamo per l’odore, quando è invece tanto saporito quanto benefico, ancora di più questo parente spontaneo. La lista si allunga man mano che la richiamo alla memoria, facendo aumentare l’appetito e il desiderio di ciò che è buono
Sfoglio le immagini di colli e borghi adagiatisi sopra, frammenti di castelli longobardi e normanni, chiese e abbazie, testimoni di una religiosità profonda, che sale dalla terra come quello zolfo che viene dalle ferite sempre aperte di una regione irrequieta.
Tra il blu del cielo e il giallo che tende al rosso dell’erba secca, questa spiritualità terrestre prende la forma di pozze antiche più delle parole, misteri della forza primordiale che non è né buona né cattiva, che dispensa la fertilità del suolo, come la morte del terremoto o dei gas velenosi. La Mefite, a Rocca San Felice, appare come fango, ma è in fondo anche una dea antica, venerata dalle popolazioni che abitavano qui prima dei Romani, dispensatrice di vita e di morte, perché nell’esistenza non ci sono dualismi netti come ci piacerebbe pensare, la bellezza si nasconde nel limo e l’inizio nella fine.
Per scacciare lo zolfo si sa, bisogna ricorrere ai santi e qui in Irpinia le testimonianze della fede cattolica non mancano, basti pensare al santuario di Montevergine che domina la piana di Avellino, meta di pellegrinaggio da tutto il mondo, o al più intimo convento francescano a Folloni.
Il moderno pellegrino laico ha bisogno di votarsi alla bellezza del silenzio e di ciò che è stato fatto con pazienza ed ha saputo sfidare anche le tragedie della storia. A lui o a lei, consiglio di andare a S. Angelo dei Lombardi e varcare la soglia dell’Abbazia del Goleto, qui potrà pregare nell’ammirazione senza parole, nell’armonia che segreta regge il mondo.
Soddisfatto, ricolmo di bellezza e di sapori, so di poter ripartire. Le connessioni infinite della vita hanno già fatto il loro lavoro e mentre il treno si allontana verso nord, su Facebook incontro delle guide che si occupano di ecoturismo qui in Irpinia. La promessa del ritorno si fa già strada dentro di me. L’assaggio che ho fatto diventa il preludio a ben altra esperienza, magari quando i campi di grano si faranno colore dell’oro, quando potrò salire passo dopo passo su qualcuna di quelle montagne che ho visto solo di sfuggita, per abbracciare questa terra di sud.
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