Scelgo la musica e gli eventi con molta cura. A volte, vengo scelto da loro. Un amico che gira una traccia, un suono che attira l’attenzione, il passaparola che porta a conoscere una festa o un evento, che vale la pena vivere. Del Samichay, era arrivato qualche eco dopo aver scoperto il mondo dei festival nell’estate del 2023. Ad un grosso evento in Umbria avevo fatto la conoscenza di un ragazzo attivo nelle aree healing di molti festival nazionali e internazionali. Senza saperlo, ci saremmo rivisti poco dopo, ad un festival di musica sperimentale dove mi avrebbe fatto questo nome, che aveva subito acceso una scintilla di entusiasmo. Iniziai allora a curiosare, finché nell’estate del 2024 comprai il biglietto e partii per la Toscana, attratto da un’offerta musicale varia e da una visione del festival, oltre il “muro di casse”, oltre la sola festa.

Samichay, un festival di arte, cultura e relazioni

L’estate è un brulicare di festival. Persino nelle terre “marginali”, come il mio Friuli, fioriscono eventi di alta qualità. La scelta si riempie di opzioni possibili, si colora quasi di una frenesia che vorrebbe tutto vedere e tutto vivere. Negli anni però ho imparato a seguire quello che mi stimola davvero, intuizioni sottili ma profonde, che mi portano laddove devo esserci. La mia è una vera e propria ricerca, di suoni nuovi e di dimensioni più ampie, profondamente legata alla passione per la musica e la danza, che contribuisce a dare forma al mio personale progetto creativo.

Il Samichay mi attirava per i colori e le sensazioni che comunicava, un festival con un’impronta quasi sperimentale, perché incentrato non solo su un main stage con musica continua, ma soprattutto su un’area culturale e healing molto nutrite. In fondo, dalla mia osservazione dei festival, mi sono accorto che molte persone scelgono di spendere soldi ed energie per una dimensione non solo festiva, ma per vivere un’esperienza trasformativa.

Certo, la musica è il collante, la forza che attira, stimola, scatena, ma è il luogo, le persone che ci lavorano, quelle che vengono richiamate, lo spirito che vi aleggia, a definire il festival. Il Samichay offriva già on line un’immagine che mi incuriosiva e che mi venne confermata il primo giorno, nel tragitto di andata, quando dopo alcuni scambi di messaggi recuperai a Bologna una coppia, fratello e sorella, per dividere il viaggio. Giovani, poco più che ventenni, curiosi di esplorare il mondo dei festival, ma di farlo in modo leggero e consapevole, senza bisogno di eccessi, attratti dalla voglia di partecipare a laboratori e seminari, di incontrare anime affini.

Arrivato, dopo aver montata la tenda, iniziai a vagare, sorprendendomi a trovare un amico delle mie zone, che aveva un banchetto vicino al lago, l’anfiteatro naturale del festival. Rincuorato da questa coincidenza, una delle tante che avvennero in quei giorni di settembre, rilassandomi ancora di più, iniziai ad esplorare, ammirato dalla cura dei dettagli.

 riserva naturale regionale Tenuta Bellavista Insuese, Guasticce, Livorno, Samichay

Forse, una delle sorprese che mi colpì di più fu l’isola del circo, raggiungibile da una sponda del lago, una sorta di mondo parallelo, quasi nascosto, un covo magico di artisti, giocolieri, attrici e musicisti, che di giorno e di notte diventava un’area dove rilassarsi stimolati dalla forza benefica della creatività.

La curiosità veniva stimolata ogni giorno, scoprendo angoli di bosco, dove qualche “alchimista vegetale” preparava infusi, chai o bevande con fermentati probiotici, gallerie d’arte inserite nella natura e spazi dove ascoltare una conferenza, una storia oltre la narrazione dominante, partecipare ad un laboratorio, dove danzare l’Ecstatic Dance, una pratica di meditazione dinamica che ho molto a cuore e che io stesso propongo da alcuni anni.

Poi giungeva la sera, estiva ma rinfrescata da quel bosco che custodiva e abbracciava un’umanità molteplice, fatta di giovani curiosi, di veterani dei festival che cominciavo a riconoscere e rincontrare, di famiglie, di genitori e figli, che magari vivevano solo il giorno.
Arrivava la sera, più psichedelica e danzereccia, di luci che illuminavano il main stage, di fiamme lanciate verso le stelle dai giocolieri, di sonorità tribali e globali, oltre le barriere dei generi, in un vasto prato dove anche il sabato, più propenso alla caciara, riuscivo a ricavare il mio spazio tranquillo, dove ballare o fare due chiacchiere con vecchi e nuovi amici.
Perché il festival è al di là di tutto l’opportunità di conoscere e scambiare, senza distinzioni di età, provenienza e storie personali.

Quattro giorni intensi e leggeri, un desiderio esaudito e soddisfatto, anche se non come me lo aspettavo. Ero andato al Samichay per la musica e la notte. Mi ero invece scoperto a godere più del giorno, degli incontri, delle relazioni spontanee che avevano lanciato dei semi, pronti a germogliare in altri eventi e luoghi.
Questa dimensione estatica è la vera magia di un festival ben riuscito. Laddove accade l’imprevisto, dove è facile ribaltare e trasmutare stanchezza e disagi, come l’ultimo giorno, quando un nubifragio portò fango e pioggia ma non abbastanza da fermare la voglia di godere di quella ricchezza.

Le parole non sono mai sufficienti quando si tratta di raccontare esperienze umane, intrecci di storie, coincidenze che coincidenze non sono. Si ha a che fare con la parte più intuitiva e visionaria di noi, l’emisfero sinistro del cervello, che abbraccia tutto e se ne frega della razionalità che divide ogni cosa.
Restano gli echi, non solo della musica, ma di un viaggio in Toscana, per me l’occasione di scoprire alcuni luoghi vicini al Samichay, di vivere un turismo creativo, di fare scorta di bellezza verso la fine dell’estate. Sapendo che ogni cosa finisce, per poi riniziare, diversa e magari migliore.

Ringrazio l’organizzazione del Samichay per avermi gentilmente concesso le foto scattate durante il festival e ovviamente i fotografi e le fotografe, tra cui Camilla Morandin, per l’immagine di copertina.