Ci sono i sogni, di viaggi verso terre lontane, nutriti dai documentari, dagli articoli di viaggiatori, dai romanzi e dalle nostalgie. Ci sono poi le montagne che se ne stanno ferme davanti ai miei occhi quando alzo lo sguardo e decido di lasciarlo vagare fino all’orizzonte. Allora, lascio cadere la pigrizia ed esco di casa, non so veramente dove sono diretto, mi basta seguire un sentiero interiore, fatto di curiosità e piccoli passi nella natura.
La pedemontana della provincia di Pordenone, nel Friuli occidentale, è una striscia di colli e montagne, un muro di boschi e pietre che si alza fino al cielo, popolato qua e là di piccoli borghi, che sembrano attraversare le epoche storiche pigramente adagiati sui rialzamenti della terra, come su dei cuscini. I sassi delle case, i vicoli silenziosi, i boschi ed i sentieri tutt’intorno, sono un mondo lontano, una piccola fuga dalla modernità assordante delle grandi città.
Qui mi è facile smarrire l’ansia di fare mille cose allo stesso tempo, i pensieri che come nuvole in tempesta corrono veloci nella mia testa, i sensi del dovere ed il bisogno di stare sempre con il “telefono intelligente” in mano, in cerca dei luccichii delle notifiche, moderni miraggi della gratificazione, della necessità di stare con gli altri. Passeggiando in un piccolo borgo come Dardago, diretto nel verde, stacco tutto, per riconnettermi.
Una giornata di sole, colorata dei gialli e del rosso dell’autunno, metto il telefono in modalità off-line e decido di andare tra gli alberi, seguendo un vecchio sentiero, lungo un canale di epoca veneziana che corre nei boschi. Dalla strada pedemontana che dal Veneto costeggia i monti fino al fiume Tagliamento, in 15 minuti di passi lenti, attenti ai piccoli dettagli del paese, mi inoltro senza fatica verso la Val di Croda, fino ad un cartello che indica il “mulino de Bronte”.
Mi accolgono sassi ed arbusti, alberi che si spargono nei pendii, che si arrampicano tenaci sulle creste delle montagne, tonalità sempre diverse, dal verde acceso al giallo dorato, fino al rosso bruno dei faggi che toccano il blu del cielo.
Il bosco, questo re dal manto di mille colori, non è sempre stato così. Fino a 50 anni fa il suo governo, ora dispotico, era mitigato da pascoli e coltivazioni, da opere in muratura, dai piccoli e grandi segni dell’infinita ingegnosità dell’essere umano.
Si cancellano i passi, i semi si diffondono e diventano piante, la memoria dell’uomo si fa esile ed evanescente, incalzata dalla concretezza dell’acciaio e del cemento a valle, eppure rimangono delle tracce che qualcuno riscopre nel bosco, inviti ad abbandonare per un attimo il mondo di oggi, per una realtà quasi senza tempo.
Lasciato il mulino da poco ristrutturato, seguo un sentiero di sassi e foglie secche, un tappeto scricchiolante ceduto dagli alberi attorno, gli occhi assorbiti dalla vegetazione, le orecchie attente al suono dell’acqua che scorre da qualche parte per alimentare le macine della vecchia struttura alle mie spalle.
E’ un silenzio liquido quello creato dall’acqua che scende dai monti, questo filo d’argento che scivola nel bosco, una musica naturale che non disturba, anzi, aiuta a trovare la strada, non tanto quella dei miei passi ma quella più importante, che si snoda dentro di me.
Il Ruial de San Tomè è un canale artificiale dei tempi in cui qui dominava Venezia, costruito nel XVII secolo per far funzionare un filatoio della seta. I passi distratti e chiacchieroni del fine settimana possono far sembrare tutto semplice ma questa è un’opera idraulica complessa, fatta di migliaia di pietre scolpite a forma di U, capace di sfruttare la pendenza del terreno per incanalare l’acqua delle vicine montagne e portarla a valle, per filare la seta o macinare grani.
Altri tempi, epoche di pietra, di grandi fatiche delle mani e di acqua preziosa, per le prime, piccole industrie e per la sete della gente comune. Come i pascoli, anche il ruial, è però scomparso, sotto il peso dell’incuria, del bosco e di quella fretta tutta moderna che corre corre, non si sa dove, dimenticando il passato.
Non si possono però cancellare le tracce che sono scolpite nella memoria degli uomini, radicate in luoghi sconosciuti persino alla forza di persuasione di questa epoca. Un gruppo di volontari si è fatta strada nel bosco, ha preso gli scalpelli e ha permesso che per qualche ora camminassi ascoltando il rumore dell’acqua, una semplice ma potente armonia che ha portato silenzio tra le pagine di una giornata d’ottobre, una quiete che ha fatto emergere queste parole fuori dal groviglio di ansie del quotidiano.
Grazie a queste persone, il ruial oggi scorre di nuovo nella pedemontana di Pordenone, una terra tra pianura e Alpi, ideale per un turismo lento di gesti e di pensieri.
Il cammino prosegue fino alla chiesetta di San Tomè, non lontano dalla dimora di un orco, che si dicesse abitasse qui attorno, uno spirito burlone che si trasformava in animale, albero o roccia, facendosi piccolo o grande per prendere in giro gli esseri umani. Oggi è difficile vedere questo spirito elementare ma non escludo che qui, qualche bambino o qualche adulto dal cuore leggero possa incontrare tracce misteriose che conducono un po’ più in là dell’ordinario.
Ritorno indietro verso Dardago. Ripercorro il sentiero costeggiando il suono del ruial, che dolcemente mi porta fino ad un piccolo balzo che ho visto all’andata, una radura nel bosco dove voglio sedermi per respirare gli ultimi attimi di tranquillità, prima di tornare nel mondo.
Mi lascio bagnare dal caldo sole d’ottobre, chiudo gli occhi e sento il profumo delle foglie vecchie, degli abiti che il bosco sta abbandonando. Ho scoperto un nuovo rifugio a pochi chilometri da casa, uno spazio di quiete dove poter andare a sentire il suono dell’acqua e lasciare anch’io, come gli alberi, quello che non serve.
Questo è un percorso semplice, adatto a tutti. Se però hai bisogno di maggiori informazioni ti lascio volentieri nelle mani di un esperto camminatore di queste terre, lui potrà facilmente condurti qui o in altri luoghi, tra colli e montagne, spazi di silenzio e raccoglimento di questo angolo di Friuli.