Mi attardo raramente nel ricordo del passato ma succede che qualche fotografia, qualche piccolo frammento se ne esca dal cassetto della memoria e si comporti come un bambino che richiede attenzione, che vuole essere raccontato. Oggi ti parlo di un ieri che a me appare come lontanissimo, un’epoca che si perde nelle nebbie del tempo, quando incontrai un frutto esotico, il guaranà, una liana originaria dell’Amazzonia.
Era metà degli anni ’90 e non sapevo nulla di presidi Slow Food, di commercio equo e soldale e nemmeno di viaggi in terre lontane, ero un adolescente che viveva in una sperduta provincia ai confini con un Est da poco passato al sistema capitalista da quello comunista.
Fu con grande stupore che nel 2007, avendo fatto domanda per partecipare al Servizio Civile all’estero, mi imbattei in una Ong che aveva stretti rapporti con i produttori di questo piccolo ma potente frutto, i Sateré-Mawé. La mia scelta era andata ad un progetto per il recupero della medicina tradizionale in Senegal ma il destino volle che la mia meta fosse proprio la terra da cui proveniva quella strana polvere color della sabbia, nel cuore del Brasile del nord.
Puoi immaginarti tutto prima di partire, puoi leggere saggi e romanzi, cercare anche di imparare la lingua del luogo in cui per un po’ dimorerà la tua vita ma la realtà è uno specchio che riflette una luce diversa dalle tue aspettative, soprattutto se stai immaginando il cosiddetto Sud del mondo.
Ero partito con un bagaglio di libri ed aspettative sul Brasile, un paese giovane ma allo stesso tempo antico, immenso nelle dimensioni ma anche nella sua capacità di trascinarti via da ogni punto di riferimento. Ricordo il caldo umido del gennaio in cui arrivai, così forte e inaspettato, le parole parlate dalle prime persone incontrate, ben diverse da quelle scritte nella mia piccola grammatica, il disordine di Manaus, una capitale in mezzo alla giungla e tanti altri dettagli che si portarono via in un attimo le mie già ben poche sicurezze.
Ci volle tempo per assestare le mie emozioni, per farle coincidere con una dimensione tanto diversa e alle volte anche ostile, una realtà sui cui non potevo dire nulla, perché qui ero solo un ospite di passaggio, un “gringo” europeo pieno di ideali che cozzavano con un mondo molto lontano dalle regole a cui era abituato.
Fu in qualche modo grazie al guaranà e ad un altro piccolo dettaglio che iniziai ad apprezzare la grandissima fortuna di trovarmi in luogo dove le mie parole ancora oggi, a distanza di anni, non hanno consistenza e si perdono nell’acqua che governa queste terre.
Il piccolo frutto che conoscevo da anni è un piccolo concentrato di caffeina. A differenza del caffè però, non da spiacevoli picchi adrenalinici che si manifestano spesso con tachicardia, ansia o nervosismo. Seppur più potente, è più dolce. Il suo effetto nel tempo è come quello di una curva che lentamente sale, arriva ad un picco e poi gradualmente scende, senza creare scompensi al sistema nervoso o al cuore. Ovviamente, come in tutte le cose, non bisogna esagerare. Inoltre, non tutto il guaranà in vendita aiuta a trovare concentrazione, resistenza ed ottimismo, senza dare effetti collaterali spiacevoli. Molto di quello prodotto in Brasile è infatti coltivato in zone lontane da quelle originarie, con sostanze chimiche non sempre benefiche alla pianta ed è essiccato ad alte temperature, per accelerare la produzione, privando quindi il frutto delle sue naturali fibre che aiutano un assorbimento più lento della caffeina.
Il guaranà di cui ti sto parlando è quello che incontrai nella foresta, a pochi passi dalle capanne degli indios Sateré-Mawé, una popolazione indigena di circa 10 mila abitanti che con dignità sta inventandosi un modo di vivere nella società di noi “uomini bianchi”, preservando la propria cultura. Lo chiamo frutto ma in verità per coloro che mi ospitavano è una pianta totemica legata intimamente alla loro storia, una divinità che appare come un occhio che ti osserva tra i cespugli.
Nella cosmologia di questo popolo indigeno il guaranà è infatti l’occhio di un bambino ucciso e poi risorto, un antenato ancestrale da cui derivano sia loro stessi che questa liana, che ha una funzione sacra, simile al vino per i cristiani. Il suo potere stimolante serve nelle battute di caccia ma anche nelle veglie notturne e nelle assemblee, perché il suo spirito è un saggio che “ispira le belle parole che creano armonia e collaborazione tra gli uomini”. Per questo ti consiglio di rivolgerti al commercio equo e solidale, per far sì che i Sateré-Mawé possano vivere di un frutto che non è solo una pianta ma una storia, le cui radici scendono nel cuore della loro dignità di popolo della foresta.
Questo piccolo concentrato di vitalità mi aiutò a ritrovare un po’ dell’energia con cui ero arrivato in Brasile, un miscuglio di curiosità e fascino per un mondo lontanissimo dai miei orizzonti abituali. Non fu però solo la caffeina ma il fatto di incontrarlo “di persona”, nella foresta più grande del pianeta, raggiunta con piccole imbarcazioni, navigando in un mondo d’acqua dove le nuvole, formate dalla continua evaporazione, sembrano montagne e dove i punti di riferimento cambiavano incessantemente, in base alle enormi piene, simili a maree stagionali, di un mare dolce chiamato Rio delle Amazzoni.
L’altro piccolo dettaglio che mi aiutò ad uscire dalla corazza che mi ero costruito una volta arrivato a Manaus, fu una piccola ape senza pungiglione che gli indios stavano allevando per produrre un miele prezioso, per la salute ma anche per la loro capacità di costruirsi un futuro nel mercato dell’agricoltura di qualità. La cura di questo piccolo essere era parte del progetto per cui dall’Italia ero stato mandato lì. Grazie a questa ape potevo lasciare la caotica metropoli e ogni tanto sfuggire, per andare in uno dei luoghi più lontani dalla civiltà che io conosca.
Dettagli, frammenti e sensazioni alla deriva che cerco di raccogliere dopo più di 7 anni. Un tempo che sembra poco ma in un paese in rapido cambiamento come il Brasile è molto, così come nella mia vita che rispetto alle foto della mia prima macchina digitale, è passata in un’altra dimensione. Di quel passato rimangono tracce nelle vedute di foreste, di qualche affluente dell’immenso Rio delle Amazzoni o di palme senza nome che mi parlano di Equatore e sembrano chiedermi perché sono ancora qui fermo e non in viaggio.
Se ti chiedi come me cos’è rimasto di quello che ho visto, mi sono informato, ho chiesto ai contatti che ho ancora dall’altra parte del mondo e posso dirti che il guaranà viene ancora coltivato e le api senza pungiglione ancora allevate. Se vorrai viaggiare in questi spazi dove la foresta non è il giardino romantico a cui siamo abituati nei nostri boschi ma una forza potente, sublime, di fronte a cui non sei che un piccolo mammifero, dove il cielo notturno è così ricco di stelle da sembrare una grotta di diamanti, puoi fare una scelta di valore e sperimentare l’ecoturismo dei figli del guaranà.
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