A volte dimentico di quanto basti poco per dare il senso del viaggio, del nuovo che stupisce, del sentirmi “diverso” e aperto al meraviglioso, a quella possibilità non logica in cui l’atteso non si compie, mentre all’inatteso un dio apre la via.
È bastato decidere di andare a est del Friuli-Venezia Giulia, della mia “terra molteplice”, fatta di molte regioni e culture, in uno spazio apparentemente piccolo ma sempre capace di dispiegarsi come se fosse infinito.
Con l’idea di andare ad AESON, uno dei festival “indipendenti” più interessanti di questa regione, mi sono trovato a vagare (e farmi scorrazzare da Enzo Comin) tra Gorizia, le valli del Natisone, la costiera di Trieste e il Carso, poche manciate di chilometri, ma così ricche di luoghi e simboli, di rimandi ad altre culture lontane, di musica e poesia, di sapori, di acque dolci e salate, che mi pare di essere stato via di casa settimane e non pochi giorni.
Prima di iniziare a raccontare davvero, mi sento di dover dire grazie a questa terra di confine, che a volte mi annoia nella staticità di certi pensieri e atteggiamenti, mentre racchiude potenziali e sensibilità estatiche, che richiedono occhi e cuori attenti.
Forse per questo essa passa così inosservata, proteggendosi dalla follia di un mondo statico che si vende come in movimento, quando spesso è in un loop autoreferenziale ed egocentrico.
Ma tutto cambia. Anche velocemente. Basta lasciare casa e partire, come il Matto dei Tarocchi.
Gorizia
Dopo due nubifragi in poche ore, come se avessi portato con me in valigia nuvole, vento e infinite riserve d’acqua, sfuma la possibilità di andare ad Aeson, il festival sull’Isonzo.
Non resta che ripiegare su Gorizia, estremo lembo d’Italia il cui confine con la Slovenia passa per la stessa città, resti di quel folle mondo novecentesco dove si dividevano stati, paesi e persone con tratti di penna sui tavoli della storia.
Ammetto che non vi ero mai stato. Tra i quattro capoluoghi del Friuli-Venezia Giulia, Gorizia è sicuramente il più bistrattato, una cittadina di confine che normalmente non suscita emozioni.
Invece io, con lo spirito del viaggiatore, che si incuriosisce dall’altra parte del mondo, come dietro casa, mi sono lasciato guidare da Enzo per le vecchie strade del centro con le sue architetture mitteleuropee fino ad una piazza dove ci siamo messi a parlare di progetti e bere birra artigianale di fronte ad un palazzo dal sapore coloniale, il palazzo del Governo appunto.
Rincasati nelle ore tarde delle notti estive, in cui l’orologio si liquefa come in un quadro di Dalì, ci corichiamo per l’indomani essere pronti ad andare a Cividale, a visitare l’ipogeo celtico, luogo enigmatico nel sottosuolo di una città antica.
Cividale, le valli del Natisone, la Musica arcaica e moderna
Sabato di nuvole, verdi intensi, intuizioni e suoni.
Da Gorizia io ed Enzo partiamo alla volta di Cividale, antica capitale del Friuli, sede di Patriarchi, di Longobardi e luoghi misteriosi, come l’ipogeo celtico che forse non è nemmeno celtico.
Sotto il manto stradale ed in parte al fiume Natisone, dietro prenotazione, si possono visitare delle camere scavate nella roccia che la solita poca fantasia della storia moderna ritiene essere tombe (come le strutture megalitiche in Sardegna, come le piramidi egizie, ecc.) e che studi più approfonditi considerano invece come luoghi rituali di cura.
Grazie ad Enzo scopro infatti l’esistenza dell’archeoacustica, branca dell’archeologia che osserva la relazione tra suoni ed esseri umani rispetto a siti ed oggetti archeologici. Insomma, la Musica continua a guidare i miei passi.
Usciti di nuovo alla luce, incerta, del sole ci addentriamo nelle Valli del Natisone, spazio magico ai confini della modernità, dove le verdi acque del fiume omonimo, i piccoli paesi dall’aria più slava che italiana, mi offrono ancora di più la dimensione del viaggio. Non esperienza turistica per cercare comfort, ma estraneità che disorienta e apre la mente.
Non resta che fare il bagno vicino ad una cavità usata sin dalla preistoria, bere e mangiare, parlando a ruota libera di sciocchezze e cose importanti.
Verso la sera, nella quiete estiva di luoghi che paiono fermi in un secolo ad un’altra velocità (per citare Battiato), ci troviamo con altre persone per salire i ripidi gradini che portano a San Giovanni d’Antro, chiesa medievale ricavata all’interno di una grotta che domina la valle.
Lì, tra simboli celtici solari, l’orizzonte su temporali e boschi, nel volo delle rondini, mi lascio cullare dal suono delle parole e degli strumenti, in un evento dedicato a poesia e musica.
Quando tutto tace e la luna piena sale sopra le montagne, la citazione del poeta Rumi da parte di un uomo persiano lì presente mi ricorda che musica e poesia, per me sono ricordi che stanno venendo alla luce. Un parto creativo. Che avviene grazie anche al viaggio.
Dopo il raccoglimento, dopo la quieta bellezza, sento l’urgenza dell’arte più caotica. È tempo di festival estivi.
Ciclici, torniamo al punto di partenza, a Gorizia, dove in un parco il Lunatico Festival dispensa le sonorità del dub, ideali per farci ballare come gli antichi, che nei ritmi ripetitivi e ipnotici, si liberavano di se stessi, per essere Altro.
Nella notte luminosa di luna, rincasiamo tra le vie estive, dove si gozzoviglia e si fanno incontri bizzarri.
Il giorno dopo ci aspetta il mare ed un antico sasso.
Il Mediterraneo, l’osmiza e il Sasso
L’Adriatico è un mare a parte o è il lembo più a nord del Mediterraneo?
La risposta la trovo partendo da Gorizia, dopo pochi chilometri, quando il paesaggio si fa brullo, di cipressi, terra gialla e profumi salmastri.
La risposta la trovo partendo da Gorizia, dopo pochi chilometri, quando il paesaggio si fa brullo, di cipressi, terra gialla e profumi salmastri.
Tra le tante vie d’uscita del fiume Timavo, Enzo indica un sentiero che preferiamo tenere per noi, nel bosco di cicale e muri a secco, vicino a Duino.
Tra scogli e improvvisa sabbia. Una baia riparata dal sole e dalla confusione dell’estate caciarona.
Nell’ozio della domenica, cullato dalle onde, presto però mi sale la voglia di andare e di scoprire.
Non sono tipo da spiaggia, da crogiolarmi al sole. Lo spirito di ricerca mi pervade e così risaliamo verso paesi dai doppi nomi, italiani e slavi, terra di osmize, luoghi che non possono essere spiegati in poche parole.
Osterie? Taverne? Troppo banale. Sono quegli spazi del Mediterraneo che sfuggono alle definizioni e alle regole rigide del Nord, porti di terra in cui si incontrano i naviganti del quotidiano a discutere di tutto e di niente, mentre si assaggiano i prodotti semplici che sanno di capra, olio d’oliva, vino e finocchio selvatico. Poco importa che qui dominava l’Austria, a me pare di essere molto più a sud, in qualche isola dal suono del mito.
Rinfrancati dalla Malvasia, il vino salmastro che regnava anche nella veneziana Candia, l’antichissima Creta, salmastri anche noi dopo i tuffi in mare, ripartiamo verso Gorizia, per un po’ di acqua dolce e un’altrettanto mediterranea siesta.
Ma il tramonto impelle, così la luna, pronta a sorgere, ed è tempo di andare ancora, questa volta verso un luogo riscoperto da poco, il Sas de San Belin, che potrebbe far ridere altri mediterranei più a ovest. Eppure, non c’è nulla di fallico, bensì di celtico e di solare, perché Belin è Beleno, divinità dei cosiddetti ”Galli”.
Rocce carsiche tra la civiltà modernissima, di elettrodotti che si illuminano come decorazioni psichedeliche nella pianura, tra il bosco selvaggio, di erba bruciata d’estate e rapaci che ci vengono a salutare, tra cui un falchetto e una civetta.
Un monolite di cui si sa poco e nulla, racchiude una pianta di fico. Per chi non legge solo le parole ma anche quello che contengono, per me sono rimandi al grande mare che ci abbraccia.
Dimmi allora se questo è solo un nord meridionale o se è invece lembo di Mediterraneo dove Greci di ogni epoca giungevano senza sentirsi lontani da casa?
La risposta arriva improvvisa attraverso il canto di una tarantella napoletana da qualche condominio lontano. Mentre la luna che si è fatta attendere appare rossa infuocata sopra il Carso.
Il viaggio termina qui. Ma è solo una tappa. Perché ormai mi è chiaro che il Mediterraneo scorra non solo nella costa ma nelle vene.
Non è solo mare o terra, ma una dimensione dell’animo.
Non parte e non ritorna. Sempre è.
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