C’è un suono impercettibile che passa inosservato durante i giorni, un battito costante che accoglie e raccoglie, che va e che viene, che s’alza e s’abbassa, ed in certi momenti dell’anno ha bisogno di rallentare. È il ritmo del nostro cuore, che troppo spesso è scandito da corse verso luoghi chiamati impegni e doveri, troppo poco verso il piacere.
Una mattina di luglio, appena nuvolosa, ho cercato di allontanare la pigrizia che mi voleva tenere a letto. Ho lasciato invece parlare il desiderio di uscire dalle quattro mura del quotidiano per alzare lo sguardo e spegnere il brusio. Sono partito per una valle vicina, quasi sconosciuta, almeno ai più, per camminare verso l’alto.
Più di ottocento metri di dislivello dalla riva di un torrente nel fitto del bosco. All’inizio ricordo la fatica ma non era quello il problema, erano i pensieri su quello che dovevo fare, sugli errori da rimediare, sulle persone che avevano o non avevano fatto, su di me che che invece di camminare sopra un morbido tappeto di foglie di altri annate, ero chissà dove, smarrito nel ritmo incessante di mille preoccupazioni, senza dar peso a quello del cuore.
Il sentiero saliva, attraversava strisce d’acqua gorgogliante, sfiorava faggi abbracciati, abeti contorti ma saldi, fiori gialli di ginestre che mai avevo visto da queste parti. La mente piano piano si spostava dai lavori del quotidiano a quelli quasi eterni della natura, portando lo sguardo su queste piante che ci mettono decenni per ricavarsi uno spazio, per far spuntare un ramo, per legarlo a quello di un’altra specie, verso la luce.
La fine era vicina, me ne ero accorto dal qualche macchia di cielo e dall’apparire di alcune rocce, il bosco stava per farsi radura aperta. Eccola la casera, sassi e cemento in mezzo all’apparente nulla, un tetto rosso come se fosse un segnale, visibile al mondo.
Era un avamposto dell’essere umano nel regno degli stambecchi e delle marmotte, che di lì a poco avrei visto saltellare da una tana all’altra, poco disturbate dalla nostra presenza.
Campanelli e versi più da pianura che da montagna, nonché tracce di sterco di asino durante il cammino, mi avevano però fatto capire che lì non c’era solo la natura selvaggia. Come molti anni prima, ma nemmeno troppi, quella casera e quella radura era tornata ad essere terreno per una delle professioni più antiche del mondo, quella del pastore.
Sigaretta in bocca e portamento di chi è a suo agio dove gli altri arrivano in fuga dalle città, il pastore ci ha accolto come si faceva un tempo, mettendosi a chiacchierare con noi.
Trent’anni, con un telefono caricato a batterie solari, che prende solo salendo per una buona ora ancora più in altro, verso una vicina forcella, il pastore era uomo dei suoi tempi e allo stesso tempo figura ancestrale, depositario di pazienza, umiltà e resistenza, per molti di noi solo fastidi che speriamo di scansare con una manciata di soldi.
Lui se ne sta lì tutta l’estate, quindi giorni in una casera e poi in un’altra qui vicina, per ritornare dov’eravamo arrivati trafelati noialtri verso settembre. Se ne sta solo, a dormire in una branda, con seicento pecore e una decina di asini, con i quali porta la legna del bosco e provviste quando una volta a settimana scende a valle.
Non c’è spazio per il superfluo, per le notifiche del telefono, per gli impegni mondani. Qui la notte si guardano le stelle che come dice lui sono così grandi da caderti addosso, mentre i pastori maremmani fanno la guardia, contro orsi e lupi.
Le mie parole che scorrono su di uno schermo, sotto dita impazienti che hanno poco tempo, trascinano me per primo verso un’epoca senza anni nel calendario della storia, in cui vivono animali selvaggi e pericolosi, in cui le stelle sono più luminose dei bagliori delle città.
Vorrei vivere così anch’io? Non credo. Ci ho provato in qualche modo anni fa, viaggiando in Australia per fattorie. Sono cittadino che fa lavori da cittadino, che i muscoli quando li vuole modellare li fa senza caricare legna su un asino. Sono però essere umano e mi faccio domande a cui non trovo risposte facili.
Sento però il bisogno di lasciare un po’ questi schermi, di incamminarmi un po’ e lasciare che i boschi provino a raccontarmi una storia diversa da quella che so articolare così bene ogni giorno. È un vecchissimo racconto, senza morale, senza voglia di educare gli altri, di dire cos’è buono e cos’è cattivo.
Forse sono solo ferie ma le etichette le lascio sulla scrivania. Io parto, ci rivedremo tra qualche giorno.
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