Darśan, uno sguardo sull’India, un libro di viaggio ed un’intervista al suo autore Marco Perini. La voglia di un dialogo per andare oltre il viaggio come movimento fisico, ma per percepirlo come moto dello spirito. L’incontro con il diverso diventa allora incontro con se stesso. Nello sguardo dell’altro posso cercare uno sguardo rivolto all’interno, quella possibilità che noi occidentali sfuggiamo in continuazione, per dovere o per scelta nascosta dall’obbligo.
Ecco la seconda parte dell’intervista. La prima la puoi trovare in questo articolo.
Come sempre, buona lettura e buon viaggio!
3) India è spiritualità e religione, tradizioni millenarie e stratificate. Gli incontri che più mi hanno colpito nel tuo libro non sono con i dotti, con i brahmani, ma con i sadhu, con un misticismo “dal basso”, se mi permetti questa espressione. Qual è stato l’incontro che più ti ha aperto a nuove riflessioni o intuizioni?
È difficile dirlo. Ogni incontro porta con sé qualcosa. Ho vissuto a strettissimo contatto con i sādhu per circa un mese, durante il Kumbh Mela del 2013. Un evento grandioso, che accade ogni 144 anni. Lì i sādhu erano a decine di migliaia. Il mondo di questi asceti è difforme. A volte solitari, a volte riuniti in lignaggi potentissimi, anche sul piano politico. Nelle città si trovano ormai perfino finti sādhu: uomini che si cambiano al mattino, indossando vesti arancioni e dipingendosi la fronte con strisce e punti colorati, e tornano alla loro vita la sera, in un percorso inverso, dopo aver raggranellato i soldi di turisti a caccia di foto esotiche. Un po’ come i finti gladiatori davanti al Colosseo.
Ho incontrato asceti che vivevano soli nella foresta, altri che vivevano in piccole comunità, nelle città sacre. Ne avevo perfino uno che dormiva davanti alla porta di casa mia, in un pianerottolo di 4 metri quadri, come racconto nel libro.
È un mondo difficile da capire, per noi occidentali. Lasciare tutto alla ricerca del mokṣa, della Liberazione. Con solo questo in mente, gli appartenenti ad alcuni lignaggi si sottopongono a pratiche estreme. Altri semplicemente meditano, rinunciando al mondo. Altri ancora sono completamente assorbiti dalla disperata ricerca di cibo, o di soldi per poterselo comprare. Ecco, se vuoi che ti parli di un insegnamento, di uno semplice semplice, quasi banale, ti racconterò di questo. Un fatto minuscolo, quasi senza importanza, se non ai miei stessi occhi.
Mi trovavo al Kumbh Mela da un paio di settimane, vivendo in una delle tende che ricoprono gli oltre sessanta chilometri quadrati dell’infinito accampamento che sorge attorno al Triveni Sangam, la confluenza di Gange, Yamuna e Sarasvatī, il fiume mitico che corre sotterraneo. I giorni trascorrevano sempre uguali, vagando tra i polverosi accampamenti di asceti e il fiume. Qualche rappresentazione teatrale dei grandi poemi epici, spezzava, a volte, la giornata.
Era quasi sera e il giorno era stato particolarmente pesante: dopo la notte gelida, trascorsa nella tenda cercando di trovare un modo per salvarmi dall’umidità del fiume che trasudava dalla sabbia e mi entrava nelle ossa, una foschia giallastra aveva accompagnato fin dall’alba il mio vagabondare continuamente assillato da richieste di denaro. Non potevo fare un passo senza che qualcuno – sādhu, pellegrini, bambini, venditori ambulanti, perfino infermieri e poliziotti – mi chiedesse dei soldi. Dalle più o meno fantasiose storie di bisogni, di fame, di malattie, di lutti, alle più immediate e dirette domande, senza convenevoli: “Give me, twenty rupiees”. Nemmeno un “please”, ad addolcire la richiesta.
Ero sfinito, di cattivo umore, maldisposto verso tutti e passavo dritto senza guardare più nessuno in faccia. Volevo solo tornare alla mia tenda, riempire un secchio d’acqua, che sapevo essere purtroppo fredda, e farmici una doccia per togliermi di dosso la polvere spessa che mi ricopriva la pelle. Ero quasi arrivato al mio accampamento, mancavano davvero pochi metri, quando mi si avvicinò l’ennesimo sādhu.
Era anziano, indossava una tunica bianca e un paio di tondi occhiali dorati gli davano un’aria da intellettuale. “Comprami del latte, per favore.”, mi chiese indicando un banchetto di legno con un ragazzino dietro. Sembrava fosse messo lì apposta: non c’erano negozi di cibo, o di altro tipo, al Kumbh Mela; solo qualche ambulante seduto per terra che vendeva collanine e cose simili, gli oggetti stesi sopra un panno lungo le strade sterrate di principale passaggio.
Provai a passar dritto, ma l’uomo insistette. “Una confezione per la mia cena, e una per la puja serale, grazie”. Ero così stanco, stufo, spossato che non ebbi nemmeno la forza di rifiutare. Mi avvicinai al banco seguito dal sādhu, ordinai le due confezioni di latte, pagai e le lasciai lì, sul banco, aspettandomi che lui ansioso le afferrasse e se andasse contento.
Ma appena feci per allontanarmi l’uomo mi richiamò, offeso: “Ehi, man!” gridò. “Ti ho chiesto del latte, del cibo. E l’ho chiesto a te! Non le ho chieste a questo ragazzo. Perciò, se vuoi donarmele, prendile e dammele in mano”. A qualcuno potrebbe sembrare una richiesta arrogante, ma per me non fu, e ancora non è, così.
Fu una grandissima lezione che realizzai all’istante: non importa quanto stanco sei, quanto le cose siano andate storte, quanto arrabbiato, maldisposto, o perfino infelice, tu sia! Non si deve mai perdere il rispetto per gli altri. E per ‘altri’ non intendo solo il sādhu, o gli uomini in generale: intendo la vita nella sua interezza e completezza, quella con la V maiuscola. Facendolo, si perde insieme il rispetto per se stessi.
Così presi il latte e con deferenza lo porsi al sādhu, scusandomi per la mia maleducazione e insensibilità. Lui sorrise, posò la sua mano sul mio capo, e pronunciando un mantra mi diede la sua benedizione.
4) Mi piace il tuo approccio alla quotidianità, alle “piccole cose”. La tua India non è grandiosa, non è nemmeno estrema, ma un susseguirsi di dettagli, di semplicità. In un mondo occidentale che anela a sempre nuove emozioni, ai colpi di scena, pensi che questo tuo approccio possa adattarsi anche ai luoghi dietro casa?
È ciò che tento di fare. Certo, qui è più difficile. Come dicevo, qui imperano le abitudini. Le giornate sono piene di impegni, lavoro, cose da fare. Tutto avviene di corsa, ormai, quasi senza respiro. Eppure se ci ferma un attimo il cielo sopra la testa è lo stesso che in India. È lo stesso dovunque.
Ti voglio raccontare un altro aneddoto. Una mattina, in India, stavo facendo colazione nella terrazza di uno sgangherato locale. Era tutto scassato e malconcio: terrazzo, sedie, tavoli, perfino i piatti. Ma si affacciava sul fiume e una brezza arrivava a recar sollievo dal caldo feroce. Il proprietario, un ragazzo sui 25 anni, mi disse orgoglioso che c’era la connessione wi-fi.
Quasi per non deluderlo, tirai furo il mio tablet, rigorosamente privo di SIM, e controllai la posta. Era il periodo di Pasqua e da casa mi arrivavano notizie di una tragicommedia familiare. Ristorante con prenotazioni dimenticate, con tutti seduti prima sotto al sole e poi sotto la pioggia, piatti non serviti, discussioni infinite. Chi ha prenotato, perché proprio lì, trattamento vergognoso e amenità simili. Tutto scritto con un tono molto partecipato.
Intanto, davanti a me, sul tavolo, una bottiglietta con dentro del miele si stava completamente ricoprendo di formiche rosse. Sembrava un minuscolo totem vivente. Mentre leggevo, poco sotto di me, giù al fiume, un mahout aveva condotto al bagno il suo elefante. L’enorme pachiderma stava sdraiato su un fianco nell’acqua bassa e sollevava contento la proboscide spruzzando attorno, mentre l’uomo lo strigliava con una spazzola. Una scena di ridente felicità.
Un contrasto nettissimo con ciò che stavo leggendo: piccole cose che diventano tragedie, drammi che ci sommergono e in cui restiamo immersi fin allo collo. Da allora, quando qualcosa va storto, non importa se grande o piccolo, cerco sempre di allargare la mia prospettiva, di ampliare il mio cielo, e ricordarmi che da qualche parte nel mondo, proprio nello stesso momento, c’è un elefante che sguazza felice nell’acqua.
5) Quello che mi ha colpito di più nel tuo libro è il continuo richiamo alla “meraviglia” e allo “stupore”. Spesso sono sensazioni che cerchiamo nell’estremo, nelle “cose forti” che può offrire il viaggio. Per te invece è una condizione dell’animo. Ti va di parlarne?
Meraviglia e stupore: mi sembra strano che così spesso ce ne dimentichiamo, me ne dimentichi. Basta fermarsi un attimo. Un saggio indiano, interrogato sui suoi presunti poteri e miracoli, rispose che il miracolo più grande è lo svegliarsi al mattino e ritrovarsi consapevoli. Tutto il resto sono baggianate.
È qualcosa che trovo estremamente vero e significativo. Nessuno ci pensa mai. Ci si sveglia e il mondo e lì. E noi possiamo osservarlo, percepirlo, sentirlo. Possiamo pensare a pianeti lontani, ammirare un cielo notturno e restarne ammaliati. Incantarci stupiti di fronte un bel quadro o a un’opera dell’ingegno umano. Possiamo testimoniare l’accadere del mondo. Una cosa fantastica. Osservando le cose accadere, come si può non provare meraviglia? Semplicemente fantastico.
Appena ci distacchiamo un attimo dai significati, dal voler interpretare il mondo e trarne una personale ragione, dal porci al centro dell’esistenza come individui, lo stupore e la meraviglia sono lì, a commuoverci.
Se appena esco da quello sguardo che mi pone al centro e mi fa dare un valore alle cose, dividendole in bene e male, riferendo tutto a me stesso, ai miei bisogni immediati, secondo occasione e momento, tutto sembra essere come deve essere. Come si può, come posso, non provare meraviglia?
6) Verso la fine del libro dici che la meta di ogni viaggio è il ritorno a casa. Qual è la vera casa secondo te?
Questa è una domanda complessa, ardua, alla quale è difficile trovare parole per rispondere. Posso solo parlare per me, per quella che è la mia personale esperienza, a volte intraducibile in discorsi.
Meraviglia e stupore sono le finestre di questa casa. Attraverso queste si può guardar dentro e, INSIEME, guardar fuori. Come dico nel libro, e scusa se mi cito, la casa non è un luogo fisico, né esteriore, né interiore. La casa è un ovunque. O così almeno è per me. Come posso dire a qualcuno la direzione da prendere? Chi sono per farlo? E, davvero, che ne so?
Se la casa è questo Ovunque, non è anche il percorso per arrivarci solo un’illusione? Di nuovo, come già detto altrove, se pensiamo di essere in un viaggio, diretti da qualche parte, con una meta precisa, quello che posso fare, con tutto il cuore, è augurare a tutti: buon viaggio.
Tutte le foto sono di proprietà dell’autore di Darśan, Marco Perini.
Scrivi un commento