Andare in India è come andare alla Verità: per incontrarla bisogna denudarsi. Spogliarsi di tutto ciò che si conosce o si pensa di sapere, lasciare cadere gli inutilizzabili giudizi e i vani pregiudizi, sospendere la nostra granitica sicurezza di cosa è bene e cosa è male. Bisogna avvicinarsi nudi e pieni di rispetto, sapendo che solo così si può essere accettati, e che anche di questo non vi è certezza. L’unica cosa che possiamo fare è arrenderci, il resto non dipende da noi.
L’India è troppo grande, anche per questo blog, un paese fatto di mille paesi, migliaia di anni di storia e di storie, che si intrecciano troppo fitte, per essere sbrogliate dalla mente analitica di un occidentale curioso. Allora, mi sono affidato alla lettura di un diario di viaggio, incontrato nel mio cammino alla fine del 2019 durante una presentazione in uno studio olistico di Pordenone. Il libro è rimasto sullo scaffale delle “letture future” finché la quarantena del marzo-aprile 2020 ha chiuso le biblioteche, le librerie e dunque, bisognava arrangiarsi con quello che c’era.
Darśan, il suo titolo, è diventato compagno dei giorni più tosti, quelli senza poter uscire di casa, quelli in cui l’unico viaggio possibile era con la mente e l’immaginazione. La narrazione di un altro scrittore, Marco Perini, è stata alleata anche della mia. Ogni volta che aprivo il suo libro arrivava una risposta alle domande intense di quei giorni straordinari, un invito a proseguire nella stesura del mio primo romanzo (ancora inedito). I libri per me sono “oggetti vivi”, soggetti capaci di parlarmi, di sciogliere enigmi, di muovere emozioni latenti, di accompagnare i miei passi.
Per questo ho chiesto un contatto di Marco a chi aveva organizzato la presentazione. Gli ho posto alcune domande, non semplici, non banali, colpito da un approccio al viaggio simile al mio, un movimento del corpo per incontrare quello dello spirito, per aprirsi alla meraviglia e allo stupore che permea ogni cosa, anche la meno appariscente e bella, quella più lontana dal turismo che cerca distrazioni.
Domande e riposte sono lunghe per il web, quindi ho deciso di dividere l’articolo in due parti. Buona lettura e buon viaggio, ovunque tu parta e ovunque ti porti!
1) Partiamo dall’inizio, dall’introduzione. Tu dici subito che il tuo non è turismo, ma viaggio. Leggendoti infatti, le tue parole raccontano l’umiltà del pellegrino, di colui che è alla ricerca, che non vuole controllare e dominare ciò che incontra. Ti va di raccontare un episodio, un aneddoto che rappresenta questo tuo approccio all’India?
Ascoltando la tua domanda, la scena che mi è viene immediatamente in mente è questa. Non è la mia prima volta in India, ma questo poco importa. Sto camminando, solo come sempre, alla periferia di una città dove la pelle bianca e i lineamenti occidentali sono un’assoluta rarità. Vengo dal fiume dove i pellegrini si affollano al bagno e sto cercando il centro città, sperando di trovare un computer, un telefono, qualcosa che mi permetta di comunicare a casa, a mia moglie, il mio essere ancora in vita. Lontano, ma vivo.
Nel mio procedere incrocio un vecchio. È magrissimo con barba e capelli bianchi. Indossa una camicia una volta bianca e un paio di pantaloni lisi. Ai piedi un paio di ciabatte sformate. Il portamento però è eretto e l’occhio splende mentre, giuntomi vicino, la bocca si apre in un sorriso felice. Porta le mani al cuore e si inchina leggermente, dicendo poche parole, semplici, ma che non ho mai dimenticato: “Benvenuto in India, signore”.
Una totale accoglienza dell’estraneo, del diverso, dello sconosciuto. Non sono andato in India per giudicare e confrontare. Non ci sono andato nemmeno per imparare, come troppo spesso si dice. Ci sono andato con lo spirito del viandante. Diceva Nietzsche che chiunque abbia provato la libertà della ragione – e io aggiungerei anche dalla ragione – non può sentirsi sulla terra altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale. Nessuno scopo. Pura percezione dell’esistere. Meraviglia dell’esistere. Ecco, anch’io come quel vecchio, ho cercato, e cerco quotidianamente, non sempre con successo, di tener ferma questa accoglienza dell’accadere.
2) Un viaggio è di solito fatto di paesaggi ma nel tuo libro, non ci sono immagini da cartolina. I paesaggi sono più interiori, sono riflessioni, sensazioni e incontri. Un viaggio serve per cambiarci, per spogliarci, non per accumulare nuove cose, sei d’accordo?
Si, il viaggio serve innanzitutto per spogliarsi. È una cosa, almeno per me è così, che accade naturalmente. Ti accorgi che il tuo modo di vivere e pensare, tutte le tue certezze consolidate, sono solo abitudini. Non sono verità. Le hai costruite poco a poco, fin dalla nascita, attraverso esperienza ed educazione. Quasi mai le hai messe in discussione, dandole per scontate.
Ma in un contesto diverso non hanno più ragione di esistere e lentamente cadono, una a una. Certo, possono essere sostituite da altre, ma prima si apre uno spazio vuoto, uno spazio in cui le cose accadono e noi siamo liberi di guardarle con occhi diversi, pieni di meraviglia e stupore. Uno spazio da mantenere il più possibile aperto. Se far questo sia nostra responsabilità o, di nuovo, semplicemente accada, davvero, non lo so.
Questo viaggio in India continua in un altro articolo.
Tutte le foto sono di proprietà dell’autore di Darśan, Marco Perini.
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