Una notte brutta, non di vento o di neve, ma di sensazioni, brividi non di freddo ma di timori, abitava la valle quella notte. Il tempo era mutato di colpo, dal caldo del primo autunno ad un inverno improvviso, un’invasione di neve e di vento gelido che sembra arrivare dai confini settentrionali del mondo, a scacciare ogni sentore di sud e di calore.
I frutti dell’estate, le mele, le pere o le erbe essiccate, erano già al riparo, i lavori dei campi conclusi da pochi giorni. Il cramar, il venditore ambulante, era pronto per attraversare le vecchie montagne e passare al di là, dove le genti parlavano un’altra lingua.
Quel pomeriggio il cielo si era fatto denso e scuro, come un intruglio d’erbe amare lasciate troppo in infusione. Era successo tutto di colpo mentre i passi lenti e costanti salivano sul sentiero. Ogni volta che egli alzava la testa le nuvole parevano farsi più compatte, più dure, come a creare strati di grigio sempre più profondi. Eppure non era previsto brutto tempo, la sua esperienza del mondo gli aveva fatto intendere che il tepore di ottobre sarebbe durato ancora qualche giorno, abbastanza per raggiungere il Tirolo. Uomo pragmatico e sbrigativo lasciava poco spazio alle superstizioni ma quel cielo gli pareva troppo strano, troppo improvviso.
Cercò di non pensare e di concentrasi sul passo, ora un po’ più deciso, come se dovesse mettere tra sé ed il mondo una certa distanza. Il silenzio pareva farsi sempre più fisso, non s’udiva né un uccello, né il vento tra i larici gialli ed i faggi rossi, persino il ruscello si era azzittito. Di colpo il primo puntino di freddo sul naso, solitario punto esclamativo dell’inverno, a cui il cramar cercò di non dare peso. Il tempo di un sospiro e i punti si moltiplicarono, divennero presto parole e frasi, la cui lingua silenziosa era bianca e ghiacciata, la parlata della stagione più buia e più fredda.
Il cramar era abituato alla neve delle Alpi e al sole più forte, quello che ti stordisce in piena campagna, mentre cerchi di scorgere un campanile lontano o un’eco di acqua salmastra, per arrivare a Venezia, ai suoi empori, per far scorta di spezie e medicine d’Oriente. Eppure, quella nevicata che si stava trasformando in bufera, era qualcosa di strano ed inquietante. Non era il freddo o il bagnato a preoccuparlo ma una sensazione, come se quel tempo stravolto fosse una creatura e non solo neve, non solo vento.
Il cramar dovette cercare un riparo perché andare avanti era inutile, per colpa del vento così forte che sembrava portalo indietro ogni passo che tentava di fare. Non era facile nemmeno vedere ma lui conosceva quel sentiero come le vie del suo paese giù in fondo, non gli sfuggiva l’abete caduto lo scorso inverno, il masso rotolato a valle, le stelle che si vedevano ad ogni curva. Dopo un po’ riuscì a trovare uno spazio ristretto in cui nascondersi dal vento che sembrava un urlo di rabbia che veniva giù dalle cime, come una tempesta del mare, di qualche dio a cui era stato fatto un affronto mortale.
Un po’ al riparo delle ondate più gelide, il suono del vento era meno forte. Nel sentiero era un fischio di ghiaccio che non faceva sentire nemmeno i propri pensieri. Il cramar ora aveva l’impressione, un po’ folle, che l’aria non portasse solo quella nevicata improvvisa ma anche delle voci. Scosse la testa perché in quel momento aveva bisogno di restare lucido il più possibile. Eppure, le folate che cercavano di insinuarsi tra i sassi e di sfiorare i suoi vestiti, sembrano dire qualcosa (…)
Il libro sta proseguendo, come in un cammino, lentamente, con pause e silenzi, momenti in cui si procede spediti e altri in cui ci si ferma a contemplare il paesaggio. Non si è qui per correre, come facciamo ogni giorno là fuori. Qui si viene per rallentare, per ascoltare, per lasciare i giudizi e le aspettative, per raccogliersi e poter proseguire con più forza.
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