Bisogna essere migliori, non i migliori. Essere i migliori è un confronto con gli altri. Essere migliori implica un confronto con se stessi.
Venerdì 9 marzo ho fatto due passi nel futuro. Sono partito da casa per un territorio sconosciuto, che non si trova su nessuna mappa. È un luogo misterioso, come non se ne vedono quasi più nelle cartine geografiche, perché al posto dei monti e degli oceani è fatto di idee e di persone. Ho compiuto un viaggio in una dimensione nuova, che non mi aspettavo, grazie all’invito di un imprenditore illuminato, per un pomeriggio dedicato alla leadership umanistica.
Tra stradine di campagna, resti di vecchie caserme e di zone industriali sopravvissute alla crisi del 2008 ho trovato la direzione verso una di quelle imprese metalmeccaniche, che costituivano la forza del Friuli-Venezia Giulia e del Nordest.
Erano mondi a sé, isole in un mare che negli ultimi anni si è fatto sempre più oceano, con acque incerte, soffiate da continui venti che cambiano direzione troppo velocemente. Qui entravano solo gli operai e i famosi rappresentanti. Da fuori nulla si percepiva, se non i fumi e le sirene dei turni. Noi, che vivevamo nelle città cresciute attorno ad esse, non sapevamo cosa succedesse là dentro. Erano punti di cemento e di metallo all’orizzonte, senza alcun ponte con la vita di ogni giorno, quell’esistenza dove ognuno lavorava per conto proprio accanto ad altri individui.
Un giorno, le isole sono state spazzate da tempeste come mai s’erano viste. Chi si è risvegliato dopo il naufragio ha capito che due erano le vie per non scomparire tra le acque agitate: fare finta di nulla e ingoiare sempre di più, trascinati via dalla marea, oppure cambiare qualcosa, cercare a tentoni una nuova strada, che nessuno o quasi aveva chiaro in mente. La leadership umanistica nasce durante il viaggio di chi ha scoperto che nessun uomo è un’isola, men che meno le realtà del lavoro in cui opera, che per cambiare tutto bisogna tornare, a ciò che siamo, esseri umani.
Non mi sono smarrito anch’io, questa introduzione serve a dare il senso all’evento a cui ho partecipato il 9 marzo, ad ARTU, lo spazio creativo di un’azienda di San Quirino, in Friuli. Serve a capire che nel mondo delle imprese sono attive forze, persone e pensieri, che stanno costruendo ponti tra le isole, che assemblano vascelli in grado di andare oltre la competizione globale, partendo dalla risorsa più preziosa, noi stessi.
Seduto in cerchio tra i suoni, i colori e le forme di ARTU, ho ascoltato piccoli e grossi imprenditori presentarsi, senza fronzoli, senza titoli, senza biglietti da visita pre-stampati. Ho sentito uomini e donne parlare di sé. Ho letto ne loro occhi stanchezze, difficoltà, entusiasmi, come capitano a tutti noi. Ho capito che non c’erano modelli certi, prototipi da applicare per risolvere qualcosa a tutti i costi. La leadership umanistica non è una formula ma un tentativo di dare un senso a quello che succede, di farlo guardandosi negli occhi prima di fissare lo sguardo sul profitto ad ogni costo.
Grazie alla facilitazione di Andrea Bravin, l’ospite di casa, e di Filippo Vanoncini, siamo stati guidati a conoscerci meglio, a riflettere su tematiche impegnative: l’autenticità, la resistenza del sogno e il naufragio, argomenti molto più complessi di quelli che affrontiamo nel lavoro di ogni giorno. In piccoli gruppi ci siamo ascoltati e senza l’ambizione di trovare delle soluzioni, abbiamo cercato di scoprirci un po’ di più, di farci penetrare dalle storie degli altri, dalla sensazione generale di apertura.
Io ho fatto parte del gruppo di confronto sull’autenticità perché da tempo mi sento chiamato a scoprire chi sono davvero, oltre le parole che indosso, oltre i follower e i post sui social media. In un nuovo cerchio ho ascoltato la storia di un manager che una volta licenziato ha cominciato scoprire la sua libertà, si è messo in gioco, si è aperto alla vita, aiutando gli altri. Un episodio traumatico gli ha fatto capire che non serve svegliarsi e ogni giorno indossare la propria corazza. La paura che ci fa attaccare gli altri o che ci mette in difesa non regge le buone aziende.
Un’ora è passata veloce come accade sempre durante l’ascolto delle belle storie. I tre gruppi in cui eravamo divisi si sono quindi riuniti per raccontare gli uni agli altri quanto era emerso.
Il sogno non è una fantasia ma una vocazione che ti chiama dal futuro. Il sogno deve essere il più grande possibile. I sogni collettivi sono più forti di quelli individuali
Sono le parole di imprenditori, di persone che ogni giorno alzano la cornetta decine di volte, che controllano processi e meccanismi, che licenziano e assumono, che amministrano e che hanno la responsabilità di famiglie e territori.
Forse è questa la leadership umanistica, essere alla guida ma essere anche umano, ricordarsi la responsabilità dell’ascolto e del dialogo ma anche quella del sogno.
Quello che mi porto a casa dopo questo viaggio nel XXI secolo, oltre le macerie della lamentela e del cinismo, è un senso di umanità e di fragilità, che non incontro mai nel lavoro. Non c’era bisogno di nessuna corazza qui, di nessun discorso per vendere di più e meglio, c’erano solo degli esseri umani che si confrontavano tra loro.
Il lavoro occupa gran parte delle nostre giornate. Riflessioni di questo tipo, le emozioni che suscitano sono un punto di partenza importantissimo. Se vogliamo arrivare da qualche parte come specie, bisogna partire da qui, da noi stessi. La leadership umanistica è il tentativo onesto di affrontare questo viaggio, di fissare una destinazione che ha molto a che vedere con la felicità.
Ritrovo molte parole e temi di “C’era una volta… un cantastorie in azienda”, scritto nel 2011 con storie così, umanità sopra a tutto. È ciò che emerge nei momenti di crisi, la risorsa sostenibile più inesauribile che ci sia sul pianeta. Grazie Luca, sono notizie che credo ponti e danno speranza.
Grazie a te Piera. I movimenti in atto sono molti, già dal 2011 e anche oltre. Serve qualcuno che li racconti anche al di fuori dei circoli ristretti che spesso abitiamo. Bisogna preparare il terreno e seminare nuove idee.